È il 18 maggio del 2012. Al quartier generale californiano di Menlo Park il fondatore Mark Zuckerberg, felpa con cappuccio d’ordinanza, festeggia l’esordio di Facebook sui mercati.
Uno sbarco sul Nasdaq che, a dir la verità, non è passato alla storia per il suo esito positivo, con tanto di problemi tecnici e tonfo iniziale delle azioni.
Ma in questi 20 mesi il re di social network ha saputo farsi perdonare con risultati da record. Nel 2013 il fatturato è cresciuto del 55% rispetto all’anno precedente, a quasi otto miliardi di dollari, mentre l’utile netto ha raggiunto il miliardo e mezzo.
Così, la piattaforma nata dieci anni fa in una stanza del dormitorio di Harvard ora vale 156,7 miliardi di dollari.
Qualche ricercatore a Princeton ha detto che è soltanto una “malattia temporanea”. Stando a quanto dice Rick Summer, analista di Morningstar, a Mark Zuckerberg conviene davvero sperare che non sia così: “La capacità di monetizzare è strettamente connessa con il fatto che gli utenti vogliono andare sul sito”, dice.
“Facebook è attraente nel momento in cui si pensa che gli utenti continueranno ad utilizzarlo nei prossimi 5-10 anni. In ultima analisi è questo il principale punto di domanda che pesa sul titolo”, aggiunge.
L’azienda, però, ha già dimostrato di saper capire bene dove tira il vento. Basti vedere la crescita nel settore “mobile”: a dicembre gli utenti erano oltre 550 milioni, il 49% in più rispetto all’anno precedente.
Un dato che ha cambiato radicalmente la composizione del fatturato pubblicitario: oltre la metà (2,34 miliardi di dollari) ora viene proprio dagli smartphone.
Ma a Facebook tutto ciò non basta: per attirare gli inserzionisti vuole migliorare la raccolta dei dati personali e i sistemi con cui ci invia pubblicità personalizzata. E, così facendo, finisce regolarmente nel mirino dei difensori della privacy.