«Quella che manca, ancora, è una logica dietro a tutto questo. Si vorrebbe arrivare a una verità più profonda, più completa, più soddisfacente, perché alcuni episodi sono ancora molto poco spiegabili: vale la pena continuare a indagare». Indagare ancora su quella banda «che ha terrorizzato e cambiato Bologna per sempre», come pure la Romagna.Sono passati trent’anni dalla nascita dell’associazione vittime della Uno Bianca, fondata all’indomani della cattura dei fratelli Savi (tutti poliziotti tranne uno, Fabio), membri principali dell’organizzazione criminale responsabile — tra il 1987 e il 1994 — di 23 morti, 114 feriti e almeno 102 azioni criminali; trent’anni durante i quali la rete creata dai familiari delle vittime non ha mai rinunciato a fare domande — «c’era qualcun altro coinvolto? Quali le motivazioni vere?», per citare il presidente — e, allo stesso tempo, durante i quali non ha mai smesso di mantenere viva la memoria e di far conoscere quei sette anni e mezzo di stragi anche a coloro che non erano nati o che a Bologna non vivevano.Per continuare ad approfondire e a divulgare ora è nato un nuovo progetto di storia pubblica partecipato ideato da Maurizio Matrone, primo passo del protocollo firmato ieri tra l’associazione e l’assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna: il suo nome è «Uno Bianca per chi l’ha vista. Una storia per chi non c’era» e si articolerà, da qui ai prossimi mesi, in mostre, incontri, laboratori, dialoghi con chi c’era e chi quelle stragi le ha raccontate sui giornali o con la propria macchina fotografica, come quella di Luciano Nadalini, le cui foto saranno in mostra dal 12 dicembre al Mambo. L’obiettivo è «riuscire a trasmettere alle nuove generazioni un senso civico e di cittadinanza attiva attraverso la memoria», ha aggiunto il presidente dell’assemblea legislativa, Maurizio Fabbri.L’anno prossimo aprirà al pubblico anche l’Archivio di Stato, per far conoscere il ricco materiale conservato nei fascicoli delle indagini e del dibattimento e restituire uno spaccato di quegli anni attraverso le fonti giudiziarie. E chissà che i 277 faldoni di carte contenenti i fascicoli di indagini sulla banda non possano arricchirsi: la speranza dell’associazione è anche questa. Da ormai due anni, dopo che gli avvocati dei familiari, Alessandro Gamberini e Luca Moser, hanno presentato un esposto di 250 pagine, la Procura ha dato nuovo impulso alle indagini, così da provare a capire una volta per tutte l’esistenza di eventuali altre complicità e a chiarire i punti ancora oscuri. «I fatti di Castel Maggiore, il depistaggio Macauda, anomalo e incomprensibile, la strage del Pilastro e quella all’armeria, dove morì mio padre, sono tra questi — ha ricordato ancora Capolungo —. Sono casi aperti, ma non lo sono solo questi, perché i morti che ha fatto la banda sono morti superflui, senza senso».Le indagini, come assicurato di recente al presidente anche dal nuovo procuratore, Paolo Guido, stanno andando avanti nel massimo riserbo: «Si va avanti con tecniche tradizionali e con tecniche moderne, che un tempo non c’erano — ha concluso Capolungo—. Legami, per quanto siano stati cercati, con le attività terroristiche tradizionali non se ne sono mai trovati, però che i membri della banda abbiano avuto dei comportamenti terroristici è indubbio. Se l’abbiano fatto da soli o manovrati in qualche modo, questo noi non riusciamo a saperlo ed è proprio quello che magari ci piacerebbe tanto conoscere. Per questo proviamo a trovare un qualsiasi appiglio per dimostrare se qualcos’altro c’era».