Il tifone uccide ancora, anche cinque giorni dopo aver lasciato le Filippine. Otto persone sono morte in seguito al crollo di un muro di un deposito di riso che stavano saccheggiando.
È successo ad Alangalang, sull’isola di Leyte, una delle più colpite dalla catastrofe. Le razzie di quel poco che non è stato distrutto da Haiyan sono diffuse. “Non è sciacallaggio, ma sopravvivenza” dicono gli amministratori di Tacloban.
I volontari hanno cominciato a distribuire gli aiuti, ma non riescono a soddisfare tutti i bisogni di una popolazione allo stremo.
“È un po’ come lo tsunami, penso” spiega un attivista belga. “Al momento sappiamo che non è rimasto praticamente niente. La maggior parte delle cose è stata distrutta. Molte persone sono senza casa, senza acqua, senza cibo. Vogliamo anche realizzare un sistema di depurazione dell’acqua”.
La disperazione spinge le persone a scavare alla ricerca di tubi sotterranei che forniscano da bere.
Il caos riguarda anche i numeri. Quelli dei morti, ad esempio. Il Presidente Benigno Aquino nega che superino quota 10.000, come è stato stimato dall’Onu. Sostiene che le vittime siano tra le 2.000 e le 2.500.
Il capo dello Stato tuttavia ha anche affermato che sono una trentina le municipalità ancora isolate. Il numero delle vittime è destinato, dunque, inevitabilmente a crescere.