Il braccio di ferro tra la giustizia e Julian Assange inizia sei anni fa.
Nel 2010, il fondatore di WikiLeaks svela l’anima più intima degli Stati Uniti pubblicando oltre 500 mila documenti secretati sulla guerra in Iraq e in Afganistan.
Assange diventa una sorta di anti-eroe braccato da mezzo mondo, osannato dall’altra metà.
Nel dicembre del 2010 è arrestato dalla polizia britannica su mandato internazionale spiccato dalla giustizia svedese. L’accusa: molestie e violenze sessuali.
È liberato su cauzione.
Lui teme però che l’operazione sia orchestrata dagli Usa, che lo vogliono in Svezia per poi estradarlo. Fa appello alla giustizia britannica chiedendo la revoca del mandato d’arresto internazionale.
Il verdetto della Corte Suprema di Londra, il 30 maggio del 2012, è senza appello:
Lord Nicholas Phillips, presidente della Corte suprema:
“Abbiamo concluso che la procura della repubblica svedese, in qualità di autorità giudiziale ha rispettato le procedure vigenti, la richiesta di estradare Assange è legale e il suo appello è respinto”.
Colpo di scena, nel giugno del 2012 Assange chiede asilo all’ambasciata dell’Ecuador a Londra e si presenta al mondo come un perseguitato politico.
“WikiLeaks è sotto minaccia, così come la libertà di espressione e lo stato di salute delle nostre società”.
Nel febbraio scorso è la stessa Commissione Onu sulle detenzioni arbitrarie a puntare il dito contro la sua condizione.
“La condizione del signor Assange è un abuso che deve finire. La sua integrità fisica e la sua libertà di movimento devono essere rispettata”.
Il braccio di ferro continua, Assange dovrebbe essere interrogato dalla giustizia svedese il 17 ottobre nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra.